Il XX giugno 1859 nel Risorgimento italiano (1954)

Il XX giugno 1859 nel Risorgimento italiano, «Perusia», n. 3, Perugia, maggio-giugno 1955. È il testo riveduto e annotato di un discorso commemorativo tenuto a Perugia, nella Sala dei Notari, il 20 giugno 1954. Poi in W. Binni, La tramontana a Porta Sole cit., edizione 1984 e successive.

Il XX giugno 1859 nel Risorgimento italiano

Ho ancora vivissima l’impressione che, negli anni della fanciullezza e della prima adolescenza, destava in me la giornata del xx Giugno: il suono mesto e virile del Campanone, il passaggio della carrozza che recava la giunta comunale a deporre corone al monumento e al Cimitero, svegliavano in me una confusa ma profonda commozione, una suggestione fantastica che certe vecchie stampe, rievocanti la battaglia e l’ingresso in città degli svizzeri, vennero poi precisando in immagini di eroismo tanto piú affascinante perché sfortunato, di violenza tanto piú ripugnante perché esercitata in nome di segni a cui il mio giovane cuore associava le idee piú alte del sacrificio e dell’amore fra gli uomini. E quelle immagini, quell’emozione di tristezza e di orgoglio, quegli impulsi combattivi e quella pietà per le vittime inermi, incisero profondamente in me una istintiva simpatia per i ribelli, per i combattenti senza divisa, per le insurrezioni popolari, un primo sentimento della celebrazione della vita civile mediante gesti di eroismo e di protesta collettiva e naturalmente lo sdegno per la violenza ammantata sotto le insegne del diritto militare, per l’abuso del potere politico da parte di una istituzione religiosa che aveva mostrato in quel caso di usare la violenza (e poi lodarla e premiarla) in maniera anche peggiore di quanto non facessero istituzioni mondane e solamente politiche.

E mi sembrava bello essere perugino soprattutto per merito di quella data gloriosa, di quell’avvenimento che tuttora mi appare pieno di civilissimo significato: quello di una città che, abbandonata a se stessa, tiene fede all’impegno preso insorgendo e si espone in nome dei propri ideali civili alle conseguenze di una battaglia inevitabilmente perduta e che poi, sotto l’occupazione, si comporta con tanta dignità e serena fierezza.

E, d’altra parte, ai miei ricordi di adolescente, appartiene anche quello di una ripetuta visita ad una lapide che, nel nostro bellissimo Cimitero, aveva sempre attirato la mia curiosità e su cui fantasticai a lungo, a mano a mano che crescevano le mie cognizioni storiche e la mia possibilità di interpretarne il significato: una lapide in francese, sormontata da uno stemma gentilizio, dedicata al conte Abyberg, «capitano del primo reggimento estero al servizio della Santa Sede, caduto alla presa di Perugia». Implicava forse quella lapide una smentita alle care stampe del saccheggio e delle stragi, il principio di una rivalutazione in me dei combattenti dell’altra parte? Invece sotto quello stemma e quell’epigrafe cavalleresca e bellicosa non c’era neppure il dubbio fascino di un’ultima prova eroica di forze battute e sconfessate dalla storia, di quei pittoreschi residui del feudalismo e del legittimismo europeo, che sotto il Lamoricière si raccolsero nel ’60 a Roma e fecero prova non ingloriosa a Castelfidardo.

Il governo pontificio nel 1859 non aveva ancora fatto appello alle forze piú retrive e piú antiquate della nobiltà occidentale e a Perugia si erano battuti solo dei mercenari, anche se ornati di stemmi e di titoli svizzeri, savoiardi, tedeschi. E non potei non provare una certa delusione quando appresi che il cavalleresco guerriero «caduto alla presa di Perugia al servizio della Santa Sede» sarebbe (cosí pare) rimasto ucciso da una palla di moschetto rimbalzata da una casa di cui egli stava guidando il saccheggio!

Cosí quello stemma e quel titolo, quell’epigrafe cavalleresca coprivano una realtà squallida e miserabile e la lotta dei perugini assumeva sempre piú ai miei occhi il valore di una lotta fra uomini liberi e vivi nella storia, e poveri avventurieri senza scrupoli, a cui l’orpello dell’inquadramento militare, la nobiltà degli ufficiali e l’insegna delle chiavi di San Pietro non aggiungevano che una decorazione sfacciata, un pretesto di dignità ad un’impresa che la resistenza perugina ebbe il merito di rivelare nella sua vera natura.

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E infatti – volendo passare dai ricordi ad un concreto omaggio a quell’avvenimento, omaggio che non può essere che la rapida ricostruzione di esso e la valutazione del suo significato nella storia del Risorgimento italiano – bisognerà dire che il xx giugno fu soprattutto la chiara dimostrazione di una essenziale differenza fra le forze vive, reali del Risorgimento, e quelle fittizie antistoriche del dominio temporale dei Papi, fra gli ideali nuovi e concreti, anche se diversamente profondi e capaci di sviluppo, che davano vigore alle forze progressive, moderate o mazziniane che fossero, e l’assurdità di una organizzazione politica artificiosa, senza necessità ideale o sociale o economica, bisognosa per difendersi di ricorrere (nell’epoca delle nazionalità!) a truppe mercenarie e straniere.

Da una parte c’erano le forze mercenarie di uno stato che Lord Clarendon al Congresso di Parigi del ’55 aveva chiamato «une honte pour l’Europe», e che costituiva un vero non senso storico, una mescolanza di ridicolo e di tragico nel suo disordine amministrativo, nel suo stupido protezionismo commerciale (con il frutto relativo di un contrabbando intensissimo non senza la connivenza degli organi preposti a combatterlo[1]), nella sua spaventosa arretratezza culturale, nella sua confusione di doveri religiosi e civili (a parte il precetto pasquale necessario per esercitare ogni mestiere e impiego, ancora nel 1859 il governatore di Bologna mandava i gendarmi a vedere nelle case piú indiziate se si cuocesse la carne nei giorni di venerdí e sabato), nella sua pessima amministrazione giudiziaria (la sentenza del Guardabassi «trovato non colpevole» fu cambiata per ordine superiore in «non trovato colpevole»!), nell’assenza di ogni intrapresa industriale, nello stato di abbandono dell’agricoltura a causa della manomorta ecclesiastica che copriva gran parte del territorio pontificio.

Di fronte a quelle forze mercenarie e di fronte ad uno stato cosí anacronistico e reazionario in ogni suo aspetto, si trovavano, il xx giugno a Perugia, le forze della borghesia di una città laboriosa e legata, per antica tradizione e per vicinanza, all’attiva Toscana: forze autentiche e in sviluppo, in accordo con il momento storico-sociale, dotate di coscienza politica e della coscienza della propria validità storica, economicamente capaci e desiderose di libertà di traffici e di migliori ordinamenti favorevoli all’agricoltura, appoggiate ad un ceto popolare di antica tradizione artigiana e ardentemente democratica. Quell’alleanza di forze borghesi, che avevano recuperato alla causa liberale la parte piú illuminata dell’aristocrazia piú recente e di origine napoleonica, e di vigorose forze popolari aveva favorito da tempo una notevole vita politica, che aveva avuto nobili inizi sin dall’epoca dell’invasione rivoluzionaria francese nel ’99 (quando i democratici perugini avevano difeso a lungo la fortezza Paolina contro i Sanfedisti aretini e le truppe austriache), e si era sviluppata specie in occasione dei moti insurrezionali del ’31, durante i quali cospicue schiere di patrioti perugini combatterono con successo contro truppe papaline in Sabina e Francesco Guardabassi, comandante della guardia nazionale, si distinse per coraggiosa prudenza salvando la città dal saccheggio dei turbolenti volontari romagnoli e degli austriaci. Il che non tolse che nel ’33 dopo un tumulto popolare, provocato ad arte dalla polizia pontificia con una perquisizione della farmacia Tei, il Guardabassi venisse arrestato e tenuto a lungo in prigione a Civita Castellana, e nella «Cagliostra» di Castel Sant’Angelo. Fu proprio la sua condotta virile e ferma (egli si era consegnato spontaneamente per subire il processo, impedire un piú vasto dilagare di arresti e dare una dimostrazione di coraggio di fronte alla sua città) che creò al Guardabassi una posizione di grande autorevolezza in Perugia e gli permise di mantenere una relativa armonia fra le forze risorgimentali che si vennero precisando dopo la prima guerra d’indipendenza (a cui numerosi volontari perugini parteciparono combattendo a Cornuda, dove morí eroicamente Pompeo Danzetta) e dopo il glorioso periodo della Repubblica romana del ’49, a difesa della quale collaborarono molti perugini con a capo Carlo Bruschi.

Sicché, se durante il decennio di preparazione ’49-59 si vennero meglio distinguendo i mazziniani capeggiati da Annibale Vecchi e i liberali moderati che, dopo una precedente adesione alla Giovane Italia, si orientavano piú coerentemente verso la guida cavouriana e sabauda raccogliendo soprattutto gli elementi borghesi, e se non mancarono contrasti fra i due partiti (specie quando nel ’53 la polizia pontificia sfruttò abilmente il risentimento dei moderati contro i mazziniani per uno sconsiderato attentato da parte di alcuni popolani contro un nobile liberale, Francesco Donini, e un sacerdote, il canonico Pascucci, e gli imprudenti, anche se involontari pettegolezzi di alcuni esponenti del partito liberale per imbastire un processo politico seguito da molte e severe condanne), la presenza del Guardabassi contribuí a far superare quei contrasti e a permettere la possibilità di una sostanziale concordia di fronte al nemico comune[2].

Concordia di cui proprio i moderati avevano assolutamente bisogno, poiché i mazziniani avevano con sé le forze piú popolari e capaci di partecipare ad una lotta armata: come si vide appunto in occasione del xx giugno, quando, accanto ai moderati che avevano iniziato e guidato la pacifica insurrezione e che, con la giunta provvisoria da loro formata (Francesco Guardabassi, Nicola Danzetta, Zeffirino Faina, Tiberio Berardi, Filippo Tantini), governavano la città, si batterono – con l’apporto del loro numero maggiore – i popolani mazziniani, e lo stesso loro capo, Annibale Vecchi, accettò di dirigere l’ufficio di pubblica sicurezza e di consacrare cosí, con quella sua partecipazione al governo cittadino, l’effettiva e generosa adesione dei repubblicani ad una lotta che, non iniziata da loro, doveva essere proseguita nel comune ideale unitario e nel comune odio per il governo pontificio[3].

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Non vi è dubbio però che – se i mazziniani aderirono ed ebbero parte importante nella difesa della città e stimolarono alla decisione della resistenza i membri del Governo provvisorio – il movimento fu iniziato e guidato dai moderati, dagli elementi del «comitato nazionale» con a capo il Guardabassi. E bisogna anche dire chiaramente – lontani come siamo da certe remore prudenziali che son cosí evidenti negli storici e cronisti di quell’avvenimento e nella sua interpretazione ufficiale maturata durante l’epoca dell’unificazione nazionale sotto i Savoia e nel periodo del liberalismo nazionale moderato e monarchico – che l’azione iniziale dei moderati perugini fu tutt’altro che priva di una certa leggerezza o per lo meno di eccessivo ottimismo e che, se la loro decisione di resistere agli svizzeri (decisione rafforzata anche dall’azione dei mazziniani e dallo stesso timore di screditarsi agli occhi della parte piú attiva del popolo) fu veramente eroica ed esemplare oltre che politicamente fruttuosa per le sue conseguenze in quella fase del nostro Risorgimento, l’iniziale sicurezza di uno sviluppo facile e positivo del movimento insurrezionale, nella fiducia di un immediato aiuto di Cavour e di Vittorio Emanuele ii, può considerarsi incauta e proprio incolpabile di quell’avventatezza che si è soliti rimproverare piuttosto ai moti mazziniani.

Punto che credo andrebbe chiarito anche come esempio assai vivace dei metodi non sempre limpidi e della complicata condotta che si stabiliva nell’azione cavouriana nella sua doppia linea ufficiale e segreta (diplomazia piemontese e azione dei comitati nazionali) e nelle interpretazioni dei suoi emissari e dipendenti. I liberali perugini attendevano da tempo l’occasione e il segnale di un’azione che doveva essere presentata, secondo il loro metodo e i loro ideali, non tanto come rivoluzione politica quanto come adesione al moto di unità e d’indipendenza italiana sotto la guida di Vittorio Emanuele ii, e come diretta partecipazione a quella guerra contro l’Austria a cui già erano accorsi fin dal maggio, come volontari, piú di ottocento giovani perugini, e che, nell’alleanza franco-piemontese, stava già dando frutti di vittorie e – meno gradite e assai imbarazzanti per l’ambiguo e incerto alleato – conseguenze di insurrezioni in Toscana e nelle Romagne. Insorta, dopo la vittoria di Magenta del 4 giugno, Bologna, i moderati perugini stimarono giunta l’ora di un movimento che aveva come mèta l’offerta della «dittatura» al re di Sardegna e che si poteva presentare piuttosto ingannevolmente assai facile, data la vicinanza della Toscana dove si trovavano un commissario regio, il Boncompagni, e una divisione di volontari fra Firenze e Arezzo con il generale Mezzacapo e il colonnello Cerotti e donde vennero, specie per opera dell’umbro Filippo Gualterio (che si poteva pensare già preventivamente d’accordo con il Cavour con cui era a diretto contatto), incoraggiamenti e promesse che non furono mantenuti; e che, se vennero a un certo punto smentiti dal Cavour, lo furono sempre in modo ambiguo e lasciando l’impressione di possibili ordini non ufficiali a favore di un intervento magari indiretto, utilizzando i numerosi volontari umbri e marchigiani, che inutilmente attendevano di essere impiegati, e rimanevano inattivi nel deposito di Arezzo o in quello di Pisa, dove poi, dopo il 20 giugno, i volontari perugini giustamente tumultuarono per il mancato aiuto alla loro città.

Quando, con grande facilità e senza il minimo contrasto, i liberali perugini il 14 giugno avevano indotto, con una piccola manifestazione di popolo, il governatore pontificio a partirsene con il presidio di 500 cacciatori alla volta di Foligno e si erano subito rivolti al governo piemontese offrendo la dittatura di Perugia al re, Cavour prima aveva fatto sapere loro di inviare una delegazione a Vittorio Emanuele a Torino, e poi, incalzando gli avvenimenti, alla loro richiesta di un aiuto immediato di truppe aveva risposto telegraficamente di non poterle inviare e di attendere ordini dal re; mentre piú tardi il generale Mezzacapo a Firenze si giustificò di non avere inviato il reggimento di Arezzo a Perugia per mancanza di un ordine scritto da lui invano richiesto al Governo[4].

E il Gualterio, in una lettera del marzo 1860 al Ricasoli, accennava amaramente alla «lezione di Perugia» per assicurare che non avrebbe mai dato piú parola ad una città senza esser sicuro che le sarebbero stati concessi «i mezzi necessari per difendersi»[5]. Naturalmente si può comprendere l’esitazione del Cavour, timoroso di provocare, con un intervento diretto a Perugia, lo sdegno di un alleato, Napoleone iii, che già guardava con dispetto e imbarazzo crescente l’evolversi di una situazione da cui aveva tutto da perdere e nulla da guadagnare se le insurrezioni dell’Italia centrale si cambiavano in annessioni al Piemonte, privandolo della vagheggiata costituzione di un regno napoleonico nell’Italia centrale ed esponendolo alle ire del partito clericale francese che non avrebbe mai acconsentito alla riduzione o alla scomparsa dello stato pontificio. L’intervento a Perugia poteva essere un pretesto di un cambiamento di condotta da parte di Napoleone iii che si verificò solo piú tardi con il trattato di Villafranca.

Comunque si voglia spiegare l’atteggiamento del Cavour, rimane il fatto che, con la sua condotta non chiara e con le speranze lasciate diffondere dai suoi emissari e da uomini a lui legati come il Gualterio (tanto piú impegnati a seguitare a promettere dalle prime promesse fatte e dallo stimolo inizialmente dato al movimento di insurrezione), egli contribuí ad illudere i liberali perugini e a porli in una situazione veramente tragica. Né si può dire che Cavour e i suoi uomini di fiducia in Toscana potessero sperare che Perugia si mantenesse libera da sé, quando si pensi che la notizia dell’invio di un reggimento di svizzeri alla riconquista di Perugia si diffuse sin dal terzo giorno di vita del governo provvisorio perugino, e non doveva essere difficile al governo piemontese aver notizia di un movimento di truppe cosí importante e che già l’Antonelli aveva annunciato in anticipo al governatore di Perugia fin dal 14 invitandolo a resistere. Né appare verosimile che da parte del Gualterio e del Boncompagni si credesse che quelle truppe andavano ad Ancona quando, durante la loro marcia, gli svizzeri parlarono sempre, nei vari paesi, della loro mèta, della città ribelle che andavano a punire e a saccheggiare.

Perché, oltre tutto, la stessa natura di quelle milizie mercenarie e i propositi dell’Antonelli, resi noti dai proclami del ministro pontificio alla guerra, il Mazio («raccomando rigore perché possa servire di esempio alle altre province potendosi cosí tener lontane dalla rivoluzione»), dovevano tanto piú stimolare il Cavour a far di tutto per non lasciare ad una sorte terribile una città che era insorta per opera di uomini del suo partito e con la spinta dei suoi diretti emissari: ciò che poteva giustificare – anche se nulla autorizza ad una tale assurda versione – le voci maligne secondo cui egli sarebbe stato machiavellicamente lieto di far apparire il pontefice «in veste di carnefice piuttosto che di vittima», e avrebbe provocato cosí l’insurruzione di Perugia per lasciarla poi preda sicura della vendetta pontificia.

Certo è che, se questo fosse stato il suo desiderio (ma si deve invece, ripeto, pensare ad incertezze tutt’altro che premeditate), esso fu davvero realizzato per opera della coraggiosa decisione dei perugini e con la collaborazione, diciamo cosí, delle truppe pontificie con la loro vergognosa condotta e dell’atteggiamento di lode, di premio, di accanita e gretta difesa del loro comportamento da parte del governo pontificio e dello stesso Pio ix.

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Le truppe pontificie (il primo reggimento estero comandato dal colonnello Anton Schmidt, e composto per la maggior parte da svizzeri, ma con ufficiali e soldati anche della Savoia e della Germania del Sud) eran partite da Roma subito dopo la notizia della pacifica insurrezione perugina e, a marce forzate, si erano portate il 19 giugno a Foligno, dove si aggiunsero a loro (il numero degli uomini del reggimento ascendeva a 1776) un gruppo di finanzieri pontifici e alcuni gendarmi a cavallo che si misero alla testa della colonna e contribuirono particolarmente (per la loro conoscenza dei luoghi e delle persone) all’individuazione delle case da saccheggiare o da risparmiare (e risparmiati furono i palazzi della nobiltà nera incontrati per Corso Cavour) e alla eccitazione iniziale degli umori predatori di quelle truppe indisciplinate e tenute insieme solo dalla speranza del bottino (fu infatti un gendarme che a Ponte S. Giovanni simulò un’aggressione da parte di abitanti di quella borgata e aizzò gli svizzeri alla prima uccisione di un giovinetto inerme e al saccheggio della casa di un possidente contro cui egli aveva vecchi rancori).

Di fronte a quei duemila uomini ben armati e desiderosi di saccheggio, i patrioti perugini non potevano sperare di opporre una resistenza di grande efficacia, quando si ricordi che la maggior parte dei giovani erano volontari nell’esercito piemontese e che, nei pochi giorni intercorsi fra la sollevazione e il xx giugno, non si potevano preparare importanti opere di difesa (oltre tutto la rocca Paolina era stata in parte demolita nel ’48-49) né di fatto si erano ricevuti aiuti da parte del governo piemontese e dalla vicina Toscana. Tanto che si può dire che come puro e semplice atto di guerra la rapida mossa dell’Antonelli su Perugia sia stata quanto mai tempestiva ed efficace, cogliendo la città (unica città importante insorta nell’Umbria) in una fase troppo iniziale di preparativi di difesa, mentre gli stessi aiuti frettolosamente preparati ad Arezzo da patrioti locali, e indipendentemente dalle promesse degli organi ufficiali, erano ancora in formazione (e infatti il 20 giugno solo trenta uomini e senza armi giunsero da Arezzo e Castiglion Fiorentino a Passignano dove ebbero notizia del combattimento avvenuto). I liberali perugini si trovarono di fatto abbandonati a se stessi, confortati solo di belle parole e di enfatici telegrammi del Gualterio e del Cerotti, con l’unico concreto aiuto di quattrocento vecchi e scadenti fucili che, giunti la sera del 19, vennero febbrilmente riattati durante la notte (ma solo duecentottanta circa furono in grado poi di sparare), e con il dubbio intervento di un ingegnere militare, il Leonardi, che non conoscendo i luoghi finí per provocare maggior confusione nell’apprestamento di qualche trincea fuori Porta S. Pietro, cosí come l’arrivo di tre avventurosi patrioti in berretto militare (rimasti piuttosto misteriosi nella cronaca di quella giornata), che pretendevano di essere incaricati del comando della difesa, finí per complicare il piano preordinato dall’energico e attivissimo Carlo Bruschi, che fu poi l’efficace realizzatore di quel minimo di organizzazione militare che in una simile situazione poteva attuarsi. Ed è chiaro che, se i capi del governo provvisorio accettarono ugualmente di giocare una carta cosí disperata, furono il Bruschi e gli eroici borghesi e popolani che nella mattina del 20 giugno si impegnarono a combattere (se ne raccolsero da cinque a seicento con il contributo di alcuni giovani dei Ponti) in quelle condizioni, con quei vecchi fucili o con fucili da caccia, a permettere con il loro coraggio di porre in atto una decisione che altrimenti sarebbe rimasta del tutto platonica. Cosí, malgrado lo scarso armamento e le povere opere di difesa dei perugini (la porta del Frontone era chiusa da due assi di legno!) e malgrado la dispersione dei pochi difensori – di cui una parte rimase a Porta S. Angelo per gli ordini assurdi dei comandanti forestieri e un’altra accorse solo piú tardi a Porta S. Pietro da Porta S. Antonio –, gli Svizzeri, presentatisi davanti al Frontone e a Porta S. Girolamo alle tre del pomeriggio, dovettero combattere piú a lungo di quanto potessero credere davanti al Frontone, finché, pare per il tradimento di un certo Patumella, operaio del convento di S. Pietro, poterono penetrare in quel convento, dove uccisero patrioti e innocentissimi servigiali dei frati, devastarono cantine e biblioteca, e, solo dopo un nuovo e piú accanito combattimento davanti a Porta S. Pietro, poterono alla fine del pomeriggio entrare in Perugia e darsi a un saccheggio che, se non fu sistematico ed esteso a tutta la città, fu intenso e feroce nell’attuale Borgo xx giugno e nell’attuale Corso Cavour, con punte fino alle scalette di S. Ercolano (dove fu saccheggiato l’Albergo di Francia e uccisi proprietario e camerieri e minacciati di morte e predati i familiari del cittadino americano Perkins) e fino al Corso, dove gli Svizzeri penetrarono nei caffè e devastarono alcuni negozi (e uno dei soldati si uccise per spezzare col calcio del fucile la porta di una gioielleria), e poté giustificare il nome di «stragi del xx giugno» sotto cui quella giornata divenne celebre. Piú celebre per la violenza delle truppe pontificie dopo la cessazione della battaglia (e la ritirata del governo provvisorio e dei cittadini piú compromessi in Toscana) che non per la stessa battaglia a cui forse, conoscendo le condizioni in cui si svolse, si dovrebbe dare maggior rilievo come ad uno dei gesti piú eroici e significativi di quella guerra di popolo che nel Risorgimento si intreccia, con cosí alto significato, con quella regia.

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Quanto alle «stragi», sta di fatto – al di là e al di fuori delle polemiche di quei giorni e di quegli anni, al di là delle amplificazioni e delle riduzioni interessate delle opposte pubblicistiche – che, oltre ai morti e ai feriti in battaglia (non molti piú di una ventina su di un complesso di combattenti che al Frontone e a Porta S. Pietro non superarono del resto i duecento o duecentocinquanta), gli uccisi inermi (fra cui donne e vecchi) furono ventuno e una trentina di feriti, per non parlare di coloro che vennero percossi e imprigionati. E vi furono case distrutte dal fuoco e piú di cinquanta furono quelle invase e predate. E se il numero dei trucidati e dei feriti non fu maggiore, ciò si deve anche alla fuga di gran parte degli abitanti dalla zona piú vicina al combattimento, sí che in realtà le vittime furono soprattutto poveri vecchi e donne che si credevano al sicuro e comunque non destinati a pagare l’ultima sporadica resistenza opposta da pochi tiratori in fuga sui tetti delle loro case. Come si credeva protetto dalla bandiera bianca il segretario comunale Giuseppe Porta che fu ucciso mentre precedeva a S. Ercolano la vecchia giunta comunale di nomina pontificia, venuta per implorare indulgenza dal colonnello Schmidt; come si credevano salvaguardati dalle loro uniformi i dazieri Vitaletti e Bellezza uccisi al loro posto alla porta S. Croce. Né dimenticarono i testimoni di quella triste giornata la particolare ferocia con cui furono uccisi in ginocchio il vecchio fabbro Mauro Passerini e sua moglie inferma invano piangente, e la fanciulla Irene Polidori, crestaia, colpita mentre cercava rifugio in mezzo ad un gruppo di altre donne atterrite e preganti. E pare piuttosto strano che i sostenitori del governo pontificio, dopo aver cercato di negare addirittura i fatti (pur magnificando la presa di Perugia e l’eroismo degli Svizzeri: e il Papa nominò subito generale lo Schmidt e fece distribuire premi e medaglie ad ufficiali e soldati), si affannassero non solo a negare un ordine di saccheggio (e se non vi fu, era pur tuttavia implicito nell’ordine di severità dato a truppe di quel genere!), ma a sofisticare sull’improprietà del nome di stragi ad un numero non abbastanza elevato di morti e feriti!

Lo stesso Pio ix alcuni anni dopo, nel ’77, parlando a dei pellegrini svizzeri, riduceva le stragi alla morte di «qualche rivoluzionario» durante una resistenza considerata illecita come quella di ladri che volessero opporsi alla rioccupazione della casa invasa, da parte dei legittimi padroni. «Valorosamente e con miglior successo gli Svizzeri sostennero gli attacchi rivoluzionari nell’Umbria, e furono questi battaglioni che ripresero Perugia con la morte di qualche rivoluzionario di quelli che vi fecero resistenza, onde poi furono inventate le famose stragi di Perugia. Se un padrone di casa vedesse le sue stanze invase dai ladri, che gli strappano le robe, e desse l’allarme e si adoperasse con i suoi a fugare gli assalitori e strappasse loro la preda e nella colluttazione cadesse qualcuno dei rapinatori, si griderebbe alle stragi? Eppure si gridò tanto sulle sedicenti stragi di Perugia»[6]. Dove non si sa se piú ripugni l’insensibilità al valore non quantitativo della violenza o la malafede sulla verità di fatti incontrovertibili (donne e vecchi, e non solo rivoluzionari, uccisi nelle loro case) o l’angusta, puerile concezione padronale della lotta politica e dei rapporti fra popoli e dominatori! Ma era pur lo stesso uomo (il Papa pseudoliberale del Gioberti e dell’equivoco del ’48) che considerava ogni rivoluzione demoniaca («il demonio è stato il primo rivoluzionario del mondo», egli diceva[7]) e ogni «ordine» legittimo e voluto da Dio, secondo l’empia interpretazione tradizionale dell’«omnis potestas a Deo» che giustifica ogni «uomo della Provvidenza», ogni dittatore, purché vincitore e disposto a concedere favori al potere ecclesiastico.

Che erano poi i princípi in base ai quali Pio ix riaffermava i suoi diritti di sovrano temporale, non avvertendo – in netto accordo con gli elementi piú arretrati del suo tempo e in altrettanto netto contrasto con la coscienza liberale di uomini che pur potevano proclamarsi cattolici come il Manzoni – l’irriducibile incompatibilità fra la sua qualità di vicario di Cristo e la sua qualità di monarca assoluto.

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L’eroica difesa e soprattutto il saccheggio e la violenza degli Svizzeri a Perugia costituirono cosí, in quella fase delicatissima del nostro Risorgimento, un elemento di grande importanza nella definitiva condanna italiana ed europea del governo pontificio, la cui assurdità e artificiosità storica appariva tanto chiara quanto la sua immoralità proprio da un punto di vista cristiano: che era poi l’impressione di sdegnata meraviglia che, in maniera piuttosto enfatica e tutt’altro che poetica, voleva rendere il giovane Carducci nel suo sonetto, Per le stragi di Perugia, quando trovava esecrando il fatto che Cristo fosse stato come ideale capitano al «reo drappello» degli Svizzeri:

Cristo di libertade insegnatore,

Cristo che a Pietro fe’ ripor la spada,

che uccidere non vuol, perdona e muore.[8]

Cosicché si può ben dire che la riconquista di Perugia, se fu fruttuosa immediatamente al governo pontificio in quanto fermò quella che poteva essere una frana del suo dominio nell’Umbria e nelle Marche già nel ’59, importò un decisivo passivo per quel governo che, a causa di quel gesto di forza male impiegata, di violenza sproporzionata (gesto lodato e premiato dallo stesso Pontefice, compiuto da truppe mercenarie straniere nel momento stesso in cui il culto del principio di nazionalità era nel suo massimo fiore), si trovò coperto di discredito in tutto il mondo civile; tanto piú che, a causa dell’accennato saccheggio dell’Albergo di Francia e delle perdite finanziarie subite dall’americano Perkins, quel governo, che prima aveva tutto negato, fu obbligato dalla diplomazia americana ad ammettere quanto era stato testimoniato da quell’inopportuno ospite straniero, e apparve cosí pubblicamente insieme bugiardo e vile. 

Ma le reazioni piú interessanti furono proprio quelle italiane, anche se allo sviluppo del nostro Risorgimento, nei riguardi del governo pontificio, giovò moltissimo il quasi unanime coro di proteste che si levò sui giornali di ogni parte d’Europa. L’azione degli Svizzeri pose davvero in crisi la coscienza di una gran parte di cattolici italiani e, come si possono facilmente trovare testimonianze di sdegno e di commozione (in cui coincidevano una cristiana sollecitudine per quel sangue innocente versato, con la coscienza nazionale e liberale ferita dall’impiego degli Svizzeri, e dall’imposizione violenta dell’autorità a una città che si era pacificamente liberata) anche in sacerdoti come il canonico Chelli di Grosseto che «piangeva al racconto di una strage di innocenti e di inermi fatta nel mezzo d’Italia»[9], si può anche indicativamente citare una lettera del Ricasoli al Lambruschini (21 giugno 1859) in cui alle esitazioni del noto pedagogista cattolico circa l’azione unitaria del governo provvisorio toscano si oppone, come prova della necessità di agire e di non credere piú alle vecchie illusioni federali neoguelfe, il fatto decisivo che «il papa manda gli Svizzeri a far assaltare Perugia»[10]. E lo stesso Ricasoli, in una lettera del 5 luglio al fratello Vincenzo, elencando alcuni avvenimenti che impegnano tutti gl’italiani ad agire concordemente e a disperdere ogni illusione sulla utilizzazione dei vecchi príncipi e sul compromesso con lo stato pontificio, metteva in primissimo piano «i fatti di Perugia, che han rivoltato la coscienza piú grossolana contro il Papa e il suo governo»[11].

Il sacrificio perugino cooperava cosí in maniera decisiva ad aumentare la provvidenziale frattura che permise indubbiamente la piú facile realizzazione dell’unificazione italiana e della prima costruzione del nuovo stato unitario, e impedí pertanto alla Chiesa di inquadrare politicamente i suoi fedeli, a cui essa aveva troppo recentemente offerto una linea politica cosí assurda e reazionaria e macchiata dalle forme estreme dell’autoritarismo e della violenza oppressiva.

E d’altra parte l’episodio del xx giugno diveniva nel periodo fra ’59 e ’60 un potente stimolo al proseguimento dell’azione liberatrice e unificatrice, una fortissima arma sentimentale nelle mani dei partiti patriottici, anche se, si può ben immaginare, adoperata diversamente (e motivo persino di polemica aspra) dai mazziniani e dai cavouriani.

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Durissima era stata la reazione del Mazzini, che traeva dalle sorti di Perugia amare e tendenziose conclusioni sull’errore cavouriano di sottrarre alle città italiane ancora sotto il Papa il meglio della loro gioventú per tenerlo inattivo nei reggimenti piemontesi, lasciando quelle esposte «ai fati che visitarono Perugia»[12], e sulla responsabilità del Cavour e dei moderati che, secondo lui, avrebbero sollecitato la insurrezione di Perugia pur sapendo che quella città non poteva essere annessa al regno del Nord, perché non compresa nella sua zona d’influenza in quella spartizione delle quattro Italie (Nord Sabaudo, Regno napoleonico del Centro, Stato del Papa, Regno del Sud con eventuale restaurazione murattiana) che il Mazzini dava troppo risolutamente per sicura e accettata dal Cavour, ma che certo fu per lungo tempo nella mente di Napoleone iii e gravò fortemente sulle remore delle annessioni dell’Italia centrale nel 1859-60.

«Perugia dové credere che il momento era giunto per tutte le province romane e rispose al segnale dato da Bologna offrendosi essa pure al Piemonte. Se non che nel disegno delle quattro Italie l’Umbria è destinata a rimanere serva del papa, e Perugia soccombe, senza una protesta del Piemonte che conta nelle sue file 800 volontari di quella città. La responsabilità delle stragi ricade su coloro che costrinsero il papa a rivendicare i propri diritti»[13].

Il «gemito di Perugia» abbandonata e caduta a causa di una politica tortuosa e di compromessi doveva dunque ridestare la volontà e l’intelligenza degli italiani a fare da sé e ad agire fuori degli schemi della diplomazia piemontese.

«Le atrocità di Perugia non possono, senza vergogna per noi, rimanere impunite. Alla popolazione della Toscana e della Romagna, riconquistare Perugia dalle mani degli assassini assoldati dal papa, dovrebbe esser parola d’ordine, pensiero d’azione, necessità!»[14].

Occorreva, secondo il Mazzini, partire da quell’errore della politica cavouriana, sostituire la guida dei moderati con quella del partito d’azione, invadere l’Umbria, riconquistare Perugia facendo di quella riconquista la molla ideale di un’azione a cui i volontari centrali nelle file piemontesi non avrebbero potuto negare la loro partecipazione, e di lí fare insorgere tutta l’Umbria e le Marche e penetrare nel regno di Napoli.

Tutte le lettere mazziniane di fine luglio e agosto da Firenze hanno al centro questo motivo ossessivo variamente espresso, intorno alla mèta di Perugia e al valore ideale e pratico della sua riconquista presentata quasi come un debito d’onore di tutti gli Italiani verso la città abbandonata nel suo momento piú tragico ed eroico. «Il motto d’ordine dovrebbe essere riconquistare Perugia, da lei andar oltre... L’operazione è nell’istinto di tutti: compíto il fatto di Perugia tutti si rovesceranno dietro a noi... Il grido dovrebbe essere Perugia, il resto, iniziata la mossa, vien da sé...»[15].

Dove è da notare quanto la vicenda perugina doveva avere inciso profondamente nell’animo degli italiani se il grande agitatore puntava tutto sulla suggestione della riconquista di Perugia (e la parola d’ordine dei mazziniani per il trimestre luglio-settembre 1859 fu appunto Venezia, la tradita di Villafranca – Perugia, l’abbandonata del xx giugno[16]) per trascinare i volontari inquadrati nelle truppe piemontesi e per sollevare i popoli del centro in una azione che egli pensava di contrapporre alla prudente tattica dei moderati e del governo piemontese.

* * *

Intanto, mentre gli animi nella primavera del ’60 si volgevano verso l’Italia meridionale dove Garibaldi guidava l’azione liberatrice contro l’esercito borbonico, la debolezza di questo esercito era stata aumentata dalla defezione, all’inizio dell’anno, di quei reggimenti svizzeri che si erano ammutinati e disciolti quando il governo federale elvetico aveva loro proibito di seguitare ad innalzare le bandiere cantonali[17]: e non vi è dubbio che questa misura derivasse proprio dalle proteste contro il saccheggio degli Svizzeri a Perugia che avevano già indotto quel governo a dissociare la propria responsabilità da quella delle soldatesche mercenarie, a cui già, in occasione della cerimonia funebre in Duomo per onorare ufficiali e soldati caduti alla presa di Perugia, aveva rimproverato aspramente l’uso della bandiera nazionale elvetica. Sicché può attribuirsi all’episodio del xx giugno e all’eco da esso suscitata anche una misura che provocò un indebolimento dell’esercito borbonico proprio nel periodo precedente lo sbarco dei Mille.

E se il suggestivo valore della riconquista di Perugia non poté servire, come avrebbe voluto Mazzini, ad un’azione popolare i cui sviluppi e le cui conseguenze sono difficilmente calcolabili, certo lo stesso Cavour (che nel suo intimo non poté non essere amareggiato dalle recriminazioni del Gualterio e degli esuli perugini per il suo mancato aiuto) afferrò volentieri la poderosa arma psicologica e diplomatica rappresentata dal saccheggio svizzero di Perugia quando nel settembre 1860, per prevenire i movimenti mazziniani nello stato meridionale e per impedire la formazione di un governo napoleonico fuori, o contro, dello stato sabaudo, decise di far passare le truppe piemontesi del Fanti e del Cialdini per l’Umbria e per le Marche e preparò la sua azione militare con un violento ultimatum all’Antonelli (7 settembre) in cui l’accusa del pericolo rappresentato per l’ordine e per la pace delle Marche e dell’Umbria dalla presenza di truppe mercenarie straniere indisciplinate e avide di saccheggi si appoggiava tutta sulla «memoria dolorosa delle stragi e del saccheggio di Perugia». E se l’Antonelli nella sua replica si preoccupava soprattutto di rigettare la responsabilità della «legittima azione delle truppe della S. Sede per reprimere la ribellione di Perugia» su chi quella ribellione aveva fomentato («Ella, sig. Conte, troppo ben conosce donde quella venne suscitata, donde furono somministrati danaro, armi e mezzi di ogni genere e donde partirono le istruzioni e gli ordini di insorgere»[18]), ciò avveniva perché gli avvenimenti di Perugia, con l’eco enorme che avevan destato in tutta Europa, con lo sdegno suscitato in Italia, rimanevano il punto piú dolente della polemica fra il governo pontificio e le forze liberali italiane.

Sicché, se si potrebbe dire che i perugini (come scrisse il Perkins che pure ebbe parole di fuoco contro gli Svizzeri e il loro comportamento) furono «avventati e sconsiderati al massimo», se il loro movimento fu provocato e danneggiato dalle incertezze della politica cavouriana, essi ebbero comunque il grande merito di prendere una decisione eroica proprio quando si videro abbandonati a se stessi e con quel gesto scavarono un definitivo solco di sangue fra la causa italiana e la politica della Chiesa romana.

* * *

Né si trattò di un gesto di pochi (come piaceva dire a Pio ix), come ben si poté riconoscere anche dall’atteggiamento della popolazione perugina dopo il xx giugno: atteggiamento di grande dignità e di assoluto distacco, se si eccettua la nobiltà «nera» e una parte del clero con a capo il cardinal Pecci, il futuro Leone xiii, che non alzò la minima protesta contro le violenze degli svizzeri e fu pronto a riceverli e a promuovere cerimonie religiose per la loro vittoria. E se non mancarono motivi di recriminazione da parte della popolazione per l’azione del XX giugno e per l’abbandono da parte di quelle forze a cui erano legati i promotori del movimento, i perugini ebbero il buon senso e il coraggio di non renderle in alcun modo pubbliche, come fecero invece nelle loro corrispondenze con gli esuli riguardo alle loro proteste contro l’occupazione militare e gli infiniti soprusi subíti da parte di quella soldatesca prepotente e indisciplinata.

E mentre gli elementi piú attivi organizzavano le diserzioni sempre piú numerose di soldati pontifici preoccupati del loro avvenire e spaventati dalle previsioni loro fatte da quegli interessati consiglieri, tutta la popolazione si asteneva da ogni contatto con le truppe occupanti e questa civilissima forma di resistenza e di protesta offrí un piú evidente spettacolo di fierezza e di dignità quando il carnevale del ’60, contrariamente ai costumi della città, non fu in alcun modo festeggiato e anzi il 21 febbraio, ultimo di carnevale, quando si seppe che gli Svizzeri volevano fare una mascherata, si decise di lasciare deserta la città e duemila persone si recarono al camposanto per portare fiori sulle tombe dei morti del xx giugno. Episodio di commovente bellezza e profondamente civile: le botteghe vennero chiuse in segno di lutto, giovani e donne vestite di scuro scesero a drappelli verso il cimitero, di fronte al quale – poiché il cardinale Pecci aveva dato ordine di chiudere i cancelli e il generale Schmidt aveva inviato pattuglie di svizzeri a mandare indietro quella folla pacifica e inerme – sostavano gettando fiori e carte con scritte ingenuamente ardite che precisavano il significato di quella manifestazione:

21 febbraio 1860

Perugia

che ai lieti dí carnevaleschi

raccolse l’animo pio amaramente

nel desolato suo lutto

l’ultimo giorno

sentí ispirarsi il conforto

di spargere lacrime e fiori

sulle tombe dei figli

il xx giugno 1859

trucidati[19]

Autorità militari ed ecclesiastiche rimasero impotenti di fronte a questa manifestazione e mi par molto bello ciò che narrano i cronisti sulla fine di quella giornata cosí adatta ad un popolo tutto sommato cosí poco retorico e nell’apparente indolenza profondamente serio: le porte della città erano state chiuse e, mentre una parte di giovani seguitava tranquillamente a passeggiare fra pattuglie di soldati, desiderosi di attaccare briga, per le strade di Monteluce, altri rientravano attraverso la porta di S. Margherita – unica rimasta aperta – di fronte al generale Schmidt che li apostrofava rabbioso: essi passavano oltre senza rispondere e senza neppure guardarlo.

La città aveva trovato nel dolore del xx giugno una straordinaria compattezza civile e la fonte di ispirazione di un coraggio e di una dignità che resero particolarmente ammirevoli quei mesi passati nell’attesa della liberazione e tali che poterono ben sostenere e animare tutti quegli esuli che come il Vecchi seguivano i piani del Mazzini o come il Bruschi (l’uomo piú dinamico e fattivo del gruppo liberale monarchico) cercavano di forzare la mano alla prudentissima diplomazia piemontese (specie prima del ritorno di Cavour al governo) e di mostrare necessaria (anche in risposta ai piani del Mazzini) la riconquista di Perugia con un’azione delle truppe dei volontari centrali e della divisione Mezzacapo o mediante un’autonoma decisione del governo provvisorio della Romagna. Anche se quei piani non ebbero effetto.

Solo nel settembre 1860 la liberazione di Perugia e dell’Umbria rientrerà nel quadro dell’azione politica cavouriana, ma alla riconquista di Perugia non si volle dare il carattere solenne che avrebbe avuto se essa fosse stata affidata, piuttosto che alle truppe regolari piemontesi del Fanti, a quei battaglioni di volontari umbri (Cacciatori del Tevere) che, comandati dall’umbro Masi e in sottordine dai perugini Bruschi e Giuseppe Danzetta, furono invece inviati ad occupare Orvieto e Viterbo: tanto la guerra regia tendeva a ridurre al minimo il valore della guerra di popolo a cui pur tanto doveva, cosí come la politica realistica di Cavour aveva avuto dall’azione mazziniana e dalle insurrezioni popolari spunti, situazioni dinamiche e forze senza di cui sarebbe stata impossibile l’unificazione italiana come un puro e semplice ingrandimento dello stato sabaudo.

* * *

Ho a lungo indicato il significato e il valore del xx giugno nella fase finale del Risorgimento, ma non posso non ricordare come quell’episodio abbia anche avuto un suo particolare valore nella tradizione piú moderna di Perugia, che nella eroica decisione della resistenza e nella fermezza con cui sopportò le conseguenze della battaglia dette la piú alta prova della sua esistenza civile e mostrò nella stessa concordia tra le forze borghesi e popolari accomunate – al di là di ogni possibile polemica sulle responsabilità e gli errori tattici – un’esemplare compattezza e, preferendo il sacrificio alla servitú, intuí che in quel modo non solo si salvava la dignità di un popolo, ma si dava una base sicura e salda al suo sviluppo e alla sua stessa vita pacifica, alla sua operosità, al suo progresso libero e democratico.

Allo spirito del xx giugno si educarono generazioni di uomini liberi e si ispirò a lungo la vita della nostra città con quelle libere amministrazioni comunali che proprio a quel nome simbolico intitolarono spesso le loro opere piú civili (scuole, asili, istituzioni di beneficenza pubblica) e che, onorando solennemente ogni anno quella data, rinnovarono un impegno solenne a mantenere la città sulla via del progresso civile e sociale, nel rispetto della democrazia, della libertà e di una severa fede laica: valori e ideali a cui, pur nel mutarsi delle condizioni storiche e nel precisarsi sempre piú concreto delle esigenze sociali, la democrazia perugina rimase lungamente e attivamente fedele.

E da quell’impegno lontano, da quella lezione di eroismo e di civiltà attinsero pur forza molti dei perugini combattenti contro la dittatura fascista e di quell’episodio molti si ricordarono anche per condannare la conciliazione fra lo stato fascista e la chiesa romana e, piú tardi, il piccolo e inutile machiavellismo che accettò l’inserimento dei trattati lateranensi nella nostra costituzione repubblicana, la quale ne venne in tanti punti fondamentali snaturata e messa in dubbio.

E ancora adesso, quando i termini della lotta politica sono tanto cambiati da quelli del Risorgimento e impegnano gli uomini in posizioni di valore universale e legano sempre piú necessariamente la libertà e la democrazia alla soluzione del problema sociale, noi possiamo pure guardare con reverenza e affetto a quella data gloriosa che rende ai nostri occhi ancora piú bella la nostra città, ci fa lieti di esserne cittadini e ci impegna ad onorarla con la nostra attività piú seria, con il nostro servizio alla causa di una umanità libera e fraterna.


1 Si veda in proposito il libro del De Cesare, Roma e lo stato del papa, Roma, 1904.

2 V. B. Raschi, Movimento politico della città di Perugia dal 1846 al 1860, Foligno, 1904.

3 Sullo svolgimento delle insurrezioni e di tutte le vicende e testimonianze relative al xx giugno essenziale è il volume di G. Degli Azzi, L’insurrezione e le stragi di Perugia nel giugno 1859, 2a ediz., Perugia, 1909, al quale si rimanda anche per i riferimenti bibliografici. Importanti anche i vari studi comparsi nelle poche annate dell’«Archivio storico del Risorgimento umbro» e naturalmente le varie relazioni e testimonianze dirette contemporanee utilizzate dal Degli Azzi.

4 De Cesare, op. cit., i, pp. 365 e ss. Importante in proposito è lo scambio di lettere fra Cavour e il principe Gerolamo Bonaparte in occasione del xx giugno. Le incertezze del Cavour furono aumentate dagli interventi di Gerolamo, di Napoleone iii, di Vittorio Emanuele ii.

5 B. Ricasoli, Lettere e documenti, Firenze, 1888, iv, p. 421.

6 A. Monti, Pio ix nel Risorgimento italiano, Bari, 1928, p. 154.

7 Ivi, p. 177.

8 G. Carducci, Juvenilia, in Id., Opere, ed. naz., Bologna, 1950, vol. ii, p. 209.

9 V. in «Archivio storico del Risorgimento umbro», iv, p. 93.

10 B. Ricasoli, Lettere e documenti cit., iii, p. 123.

11 Ivi, p. 137.

12 G. Mazzini, Scritti editi ed inediti, x, p. 317.

13 Ivi, p. 324.

14 Ivi, p. 327.

15 G. Mazzini, Scritti editi ed inediti, xxxvii, Epistolario, pp. 6, 292, 305, 329, 330 e ss.

16 G. Mazzini, Scritti editi ed inediti, xxxviii, p. 95. Invano il Mazzini cercò di guadagnare il Ricasoli a questo piano, che, d’altra parte, fu presto noto e preoccupò assai Napoleone iii e il papa, Cavour riconosceva che era difficile al Boncompagni a Firenze di trattenere i volontari centrali «esasperati dai massacri di Perugia».

17 A. Omodeo, L’età del Risorgimento italiano, 6a ed., Napoli, 1948, p. 405.

18 De Cesare, op. cit., ii, p. 63.

19 Nella cronaca del Fabretti riportata in G. Degli Azzi, op. cit., p. 344n.